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La Presentazione

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La presentazione, accompagnata da note esplicative, può essere utilizzata e condivisa da chiunque eserciti forme di attivismo in ambito politico e/o ambientalista e ne condivida i contenuti. La Conversazione sul nostro tempo questo è il titolo della presentazione – offre un contributo, credo significativo, per comprendere aspetti fondamentali della realtà che, normalmente, sono trascurati nel mondo della politica, nel senso comune e nell’ambientalismo istituzionale.

Ovviamente la realtà è decisamente più complessa di quanto possa essere chiarito da una serie di slide. Si tratta quindi di lavorare in prospettiva per fare sì che un lavoro di approfondimento progressivo dia ulteriore forza alle tesi iniziali.

Le tesi sono estremamente semplificate, ma ogni slide può diventare oggetto di dibattito e di approfondimento.

La presentazione non fornisce soluzioni. Le soluzioni diventeranno visibili soltanto quando gli umani singoli si ritroveranno in quanto "umanità".







Conversazione sul nostro tempo




I problemi ambientali stanno assumendo sempre più caratterizzazione politica. Ormai è chiaro che scelte estreme dovranno essere effettuate nell’immediato futuro se non si vorrà assistere alla più grande catastrofe a memoria d’umano. I nuovi movimenti come Fridays for Future, Extintion Rebellion o i prossimi che certamente nasceranno premono perché i grandi cambiamenti siano messi nell’agenda politica degli Stati che maggiormente hanno responsabilità nel degrado delle condizioni del Pianeta.

È tutto chiaro? Si sa dove andare a parare? Nonostante il clamore, ormai universale, non sembrerebbe. Molte scelte devono essere compiute dagli umani prima che sia la natura stessa a tagliare il nodo gordiano. E poiché la natura "non usa la carità, ritenendo i diecimila esseri niente più che cani di paglia” è importante che gli umani recuperino la saggezza necessaria prima che sia troppo tardi.





Il problema




Negli ultimi tempi l'opinione pubblica è posta di fronte a ipotesi di scenari disastrosi. Innumerevoli ricerche concludono che il livello del mare aumenta ponendo a grave rischio società costiere; che siccità e alluvioni porranno a breve termine problemi di sostenibilità alimentare ed emigrazioni mai viste in precedenza; che i ghiacci si sciolgono aumentando la radiazione solare intrappolata nell'atmosfera; che l'inquinamento progressivo avvelena e avvelenerà la vita umana, che migliaia di specie sono scomparse e altre sono sulla via di seguirne il destino, che la vita stessa degli umani dovrà adattarsi a condizioni imprevedibili che porteranno grande sofferenza.

Le cause di tutto questo, sostiene l'autorevole Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), sono individuate nelle attività antropiche. Le forze più sensibili al problema, come i movimenti ambientalisti nati dal basso come Extintion Rebellion o Fridays for Future si stanno organizzando in tutto il Pianeta.

Intendono sollecitare i governi a prendere misure adeguate e limitare i danni futuri, poiché quelli fatti sono ormai irreversibili.Come rispondono le istituzioni politiche? Incominciano a prendere le cose sul serio? È indubbio che vi siano agenzie governative o internazionali che si occupano dei problemi ambientali globali. Ne sono prova le delegazioni inviate dai governi alle varie conferenze sul clima o le diverse diverse agenzie “unimondiste” che fioriscono presso le Nazioni Unite. Sono composte da funzionari con sinceri interessi e altrettanto sincere preoccupazioni. Ma osservando con attenzione le scelte economiche perseguite si nota che la politica si orienta in direzioni che vanificano gli inviti degli scienziati del clima.







La slide individua tre tipi di Homo politicus.

Il
primo tipo prevede il classico personaggio che si cura soltanto di interessi tribali e personalistici. Si tratta della vecchia cultura politica: una tipologia che potrebbe essere definita dei "distratti" e che è destinata a risvegliarsi o a scomparire.

Il
secondo tipo è il tipico esponente del negazionismo climatico. che è costretto a confrontarsi con qualcosa che è estremamente lontano dalla sua cultura politica o contrasta con gli interessi delle lobby che lui rappresenta.

Il
terzo tipo possiede una certa sensibilità al problema ma è prigioniero di una visione tecnocratica. E' la categoria dei fiduciosi, la più pericolosa. Infatti non c'è niente di peggio che adottare soluzioni sbagliate per risolvere problemi gravi.

Lasciamo in sospeso la questione per riprenderla verso la fine dell’esposizione






Propedeutica




All’origine di ogni considerazione sta il concetto di “entropia”, noto anche come seconda legge della termodinamica. Il concetto di entropia, che possiamo associare al concetto più familiare di “degrado”, è nato con gli studi della termodinamica.

La sua trattazione dovrebbe essere altamente formalizzata, tuttavia qui conviene esprimere il concetto in termini intuitivi. Se si scalda una pentola d’acqua fino a farla bollire e poi si spegne il fuoco, la temperatura dell’acqua si adegua alla temperatura ambientale. Ho speso energia termica che, alla fine si disperde nell’ambiente. L’energia non è scomparsa. Semplicemente è passata da una condizione disponibile (l’energia termica del gas), a una indisponibile.Quel calore non potrà più essere recuperato. In un sistema chiuso, l’energia tende a raggiungere una condizione di indisponibilità. C’è, ma non serve a nessuno.

Questo concetto dalla termodinamica è stato poi esteso al mondo della materia. Anche la materia, in un sistema chiuso, tende a raggiungere una condizione di degrado e di disordine. C'è qualcosa di drammatico in questo: una volta raggiunto quello stato, la materia non potrà più essere disponibile per essere riorganizzata. L’entropia aumenta in ogni trasformazione dentro un sistema chiuso.

Qual è la condizione sulla Terra? Dal punto di vista dell’energia il problema non si pone perché la Terra è un sistema aperto in quanto riceve energia dal Sole che di certo avrà una vita più lunga del nostro Pianeta. Ma dal punto di vista della materia la Terra è un sistema chiuso e quindi soggetto a problemi di perdita di organizzazione e di degrado. Cosicché il destino della Terra è quello di un progressivo disordine che in tempi pur lontanissimi comporterà l’assenza della vita. Per quale ragione ciò avverrà? Sostanzialmente per motivi indipendenti dagli esseri viventi.

Ma anche questi potrebbero "contribuire" in qualche modo. Infatti ogni atto compiuto dagli esseri viventi, dal filo d’erba alla balena, assorbendo risorse materiali ed energia, produce una quantità di disordine nell'ambiente in cui vive. Ogni vivente rappresenta un sistema altamente organizzato che assorbe energia e materia (anaboliti) e scarica nell’ambiente calore e rifiuti (cataboliti). Il calore perduto aumenta l’entropia dell’Universo, ma nel tempo terrestre non costituirebbe alcun problema (se non impiegassimo combustibili fossili). Invece, in teoria, i rifiuti materiali prodotti dagli organismi viventi potrebbero costituire un problema aumentando l’entropia nella biosfera. Per fortuna il problema – prima che apparisse la nostra specie – non ha mai prodotto effetti pratici per le ragioni che adesso andiamo a considerare (slide 7 e 8).







Il processo mediante il quale un organismo animale o vegetale assorbe energia e materia si chiama anabolismo. Mediante questo processo esso attiva il ricambio cellulare necessario al suo mantenimento. L’altro lato del processo è costituito dal catabolismo, cioè dalla demolizione delle molecole assorbite e dalla produzione di rifiuti materiali e di energia degradata e irrecuperabile. L’insieme delle due fasi prende il nome di metabolismo.

Se ogni essere vivente è soggetto a questo processo dovremmo aspettarci un accumulo di cataboliti e la conseguente rapida morte del sistema a causa dell’accumulo dei rifiuti prodotti da ogni individuo. Ma - come si è detto - questo non accade.

Tutti conosciamo ciò che accade in natura: l’erbivoro assorbe i vegetali, il carnivoro mangia l’erbivoro, gli organismi decompositori degradano i cadaveri dei primi e dei secondi scomponendo le loro molecole fino a produrre quelle necessarie alla vita del mondo vegetale. Siamo in presenza di ciò che viene chiamata
catena trofica.

In ognuno di questi processi si registra una perdita, ma il fatto che i cataboliti di un individuo animale o vegetale costituiscano gli anaboliti per un altro individuo rendono tale perdita infima, cosicché il processo può riprodursi per tempi lunghissimi. Quella che viene chiamata “catena trofica” dovrebbe essere meglio nominata come “rete trofica”. Infatti i fenomeni relazionali in natura costituiscono un’autentica rete: la
comunità dei viventi (o biocenosi) i quali, relazionandosi tra loro, garantiscono la permanenza dell’evoluzione. Prima dell’apparizione di Homo sapiens, l'evoluzione poteva essere posta in crisi soltanto da fenomeni non attribuibili a nessuna specie vivente particolare (acidificazione degli oceani, attività vulcaniche, meteoriti...).

Osservazione importante

L'essere umano non è l'apice dell'evoluzione. Tutti gli organismi che si trovano nello stesso istante temporale sono tutti "pari merito" rispetto al processo evolutivo. Ma va fatta una considerazione ulteriore. Il "meccanismo" funzionerebbe agevolmente anche se non esistesse la nostra specie, mentre risulta fondamentale e necessaria la funzione dei batteri decompositori. Dovrebbe bastare questo a spegnere quel delirio di onnipotenza che prende il nome di antropocentrismo, la credenza di essere i facitori del mondo.







Sebbene la vita sul nostro Pianeta sia destinata a scomparire a causa dei fenomeni di degrado entropico, ciò non dovrebbe preoccupare più di tanto: ogni specie emergente dall’evoluzione avrebbe davanti a sé milioni di anni di vita grazie al sorprendente insieme di rapporti con i quali la comunità dei viventi mantiene se stessa.

Ma c’è un altro motivo fondamentale a garanzia della
stabilità della comunità biotica. Sebbene in termini convenzionali, possiamo immaginare la natura come un insieme di risorse intangibili – lo stock e di risorse disponibili – i flussi. Una scimmia, ad es., può attingere i frutti dagli alberi (il flusso), ma non accederà a ciò che li produce, cioè gli alberi (lo stock). Un castoro potrà attingere alberi e rami (flussi), ma non l’humus che li riproduce (stock). Un leone potrà cibarsi di una gazzella (flusso), ma non avrà accesso alle risorse che permettono la riproduzione delle gazzelle (stock). La gazzella potrà mangiare vegetali (flusso), ma non avrà modo di deteriorare l’humus (stock).

Insomma sembra che la natura abbia un
capitale di fondo (stock) e che la comunità biotica attinga soltanto gli interessi (flussi). Il (quasi) mantenimento del capitale è la garanzia della riduzione del degrado entropico a livelli impercettibili.







Se la scimmia possedesse la capacità di costruire una sega potrebbe tagliare l’albero per evitare di salire per prendere la frutta. In quel caso attingerebbe il flusso danneggiando lo stock. Se la gazzella costruisse strade asfaltate per sottrarsi più velocemente ai leoni potrebbe continuare a brucare erba (flusso), ma ne ridurrebbe la quantità disponibile a causa della sottrazione di parte del terreno (stock) dalla sua funzione vitale primaria.

Ma gli animali non hanno tecnologia e, accedendo esclusivamente ai flussi, dimostrano di avere una capacità essenzialmente consumatoria e non produttiva. L’assenza di tecnologia, l’impossibilità da parte di ogni specie di manipolare la materia al di fuori dei meccanismi previsti dall’evoluzione costituisce la garanzia di relativa stabilità o, meglio, di equilibrio dinamico della vita naturale.






Non è chiaro quando la nostra specie abbia acquisito la capacità di articolare il linguaggio. Ma da quel momento Homo sapiens è diventato un animale tecnologico. Capacità linguistica e sistema simbolico hanno generato i presupposti della manipolazione del mondo mediante la capacità di progettazione di strumenti sempre più complessi. Le prime selci scheggiate non sono nulla rispetto agli attuali satelliti per le telecomunicazioni, ma rispondono alla stessa logica: agire sull’ambiente liberandosi dalla logica prettamente consumatoria degli altri animali allo scopo di attingere più risorse dall’ambiente.

Con la nascita del potenziale linguistico e simbolico l’essere umano si emancipa dalle costrizioni della natura. Gli effetti sono due: il suo spazio cessa di essere quello che l’evoluzione ha consegnato alla nostra specie.






Lo spazio, da naturale, diventa tecnologico. Homo sapiens potrà accedere non soltanto ai flussi ma anche allo stock grazie alla capacità di costruire e impiegare dispositivi di vario genere.

Fissiamo bene questa frase: “L’accesso allo stock rappresenta un vero salto di qualità nella storia naturale”.

L’accesso allo stock costituisce una manifestazione di potenza e, contemporaneamente, di estrema debolezza. La letteratura umana ossessionata da delirio di onnipotenza ha sempre posto l’accento sul primo aspetto, mai sul secondo.






La disattenzione riguardo il danneggiamento dello stock (distruzione di foreste primarie, acidificazione dei mari, impoverimento dell’humus a cui attinge la biocenosi, inquinamento dei fiumi ecc.) perdura tuttora nelle necropolitiche dei governi, nelle attività criminali di moltissime multinazionali, nelle strategie imprenditoriali per produrre profitto, nelle direttive tecniche di centri studi pubblici e privati. Perdura persino nella parte dominante delle istituzioni prettamente culturali che continuano a considerare l’“umano” al di fuori della comunità del vivente, qualcosa che “eccede” la natura.

L’insistenza su questo approccio prometeico e antropocentrico produce un’incessante pressione sulla rete del vivente, cioè sulle stesse condizioni che garantiscono la vita stessa per
ogni organismo vivente (umano compreso). Tale pressione costituisce la debolezza della specie umana che, condotta oltre un determinato livello, pone in discussione l’avventura della vita nelle forme in cui oggi la conosciamo.





Giungiamo a un nodo ineludibile. Il disordine (l’entropia) causato dall’attività umana inizia ad accelerare il naturale processo di degrado a cui la vita è naturalmente soggetta. Ricordiamo quali erano i due motivi che rendevano impercettibile l’aumento dell’entropia prima della comparsa dell’essere umano:

     1. equilibrio dinamico della biocenosi, la comunità del vivente in cui, in definitiva, nessuna specie prevale sulle altre;
     2. impossibilità d’accesso, per tutte le specie, allo stock delle risorse primarie della natura.

Entrambe le condizioni vengono infrante. La durata naturale della vita delle specie incomincia ad accorciarsi a causa del nuovo venuto. La tela della biodiversità incomincia a lacerarsi in certe zone e a scomparire in altre. La stessa specie umana incomincia a indebolirsi.

Essa vive perché le altre specie vivono! Se le altre si indeboliscono, anch’essa si indebolisce; se vengono devastate dalla furiosa attività umana, è anche questa a devastare se stessa.






Quando la potenzialità tecnologica della specie Homo sapiens si imbatte nei depositi carboniosi del Pianeta, si sviluppa l'esplosione dell'attività umana. Prima l'umano era inserito nel ciclo del carbonio al pari degli altri esseri, e la potenzialità distruttiva a lui propria era comunque limitata da tecnologie poco impattanti. Ora egli affianca al ciclo del carbonio vivo - quello a cui attingono tutti gli esseri viventi – consumi di carbonio morto (carbone, petrolio, gas) che l'evoluzione aveva "provvidenzialmente" racchiuso nel sottosuolo per permettere alla vita di manifestarsi.

La potenza produttiva che macina quantità enormi di stock genera problemi progressivi. Una quantità crescente di CO2 e altri gas di origine industriale diventano i responsabili dell'attuale crisi climatica. Non solo: l'antropizzazione completa della Terra determina - tra l'altro - il disastro
estinzionista che in tre secoli diventa incontrollabile.

Si ritiene che l’essere umano possa vivere felicemente anche se un certo numero di specie scompare. Probabilmente è vero (anche se il fondo di quest’affermazione è antropocentrica e orribile sul piano etico). Ma a quali specie potremmo rinunciare? Sentiamo cosa ha da dire Jared Diamond, esperto di biologia evolutiva:

Quali dieci specie di alberi producono la maggior parte della pasta di legno del mondo? Per ognuna di tali specie, quali sono le dieci specie di uccelli che mangiano la maggior parte degli insetti a esse nocivi, le dieci specie di insetti che impollinano la maggior parte dei suoi fiori, e le dieci specie di animali che propagano la maggior parte dei suoi semi? Da quali altre specie dipendono questi dieci uccelli, questi dieci insetti e questi dieci animali? Se noi fossimo a capo di un’industria di legami e volessimo cercare di stabilire quali specie lasciar sparire senza pericolo, dovremmo sapere rispondere a tutte queste domande impossibili”. (J. Diamond – Il terzo scimpanzé).

Inutile dire che nessun imprenditore del legno, né di nessun’altra produzione di merci, si è mai posto un problema di questo genere, ne mai avrebbe potuto risolverlo. E nessuno Stato, nessun partito, nessun politico si è mai preoccupato di arginare la follia produttivistica spinta a livelli parossistici.









Proviamo a fare un test di verifica. Immaginiamo di dover incollare le due etichette della slide sulle corrispondenti immagini che seguono. La prima rappresenta un angolo di jungla più o meno ancora intatta. La seconda un luogo di produzione di vino.






La porzione di foresta rappresentata costituisce il luogo dell’equilibrio dinamico in cui le specie vegetali e animali si scambiano energia e risorse a bassissimo impatto (prossimo a zero). Se sufficientemente grande, e in assenza di influenze esterne, tale nicchia ecologica potrebbe reggere per tempi interminabili mantenendo le proprie caratteristiche.

Non dovrebbe essere complicata l’assegnazione dell’etichetta: ordine! Ciò che appare come un caotico ammasso di vita rappresenta il risultato di infiniti processi finalizzati a raggiungere l’equilibrio che si pone alla nostra vista. Un tale ambiente potrà sopportare “influenze esterne” senza perdere le proprie caratteristiche? Forse un botanico, un antropologo, un missionario? In teoria sì. In pratica ognuna di tali figure costituisce (quasi) sempre l’avanguardia della fine.






La magnifica geometria dei filari di vite ci suggerisce il massimo dell’ordine. C’è qualcosa di più connesso con l’ordine di quanto non sia la geometria? Forse nel cervello di Platone e di coloro che proiettano la mente in mondi astratti.

In realtà quella porzione di terra è stata privata della biodiversità. Essa è stata sostituita da una monocultura (la vite). Nessuna monocultura si sostiene da sola. E difatti il mantenimento di quella meraviglia iconica presuppone impiego di diserbanti, trattamenti chimici, lavoro umano continuato. Inoltre quell’equilibrio geometrico presuppone influenze invisibili perché esterne all’area ma altrettanto reali e, soprattutto,
connesse. Ci saranno fabbriche che producono le sostanze chimiche necessarie alla coltura, altre che producono trattori e altre macchine agricole; poi fabbriche di bottiglie, di camion adibiti al trasporto in entrata e in uscita dei prodotti.

Ognuno degli elementi accennati implicherà altri settori, per esempio industrie dell’acciaio, della plastica, della gomma. Pressoché impossibile prendere atto di tutti gli elementi che partecipano alla catena fino a giungere all’anello finale.
La bottiglia di prosecco che giunge sul tavolo, a differenza della banana di cui si ciba lo scimpanzé, avrà dietro di sé un impatto su un territorio enorme con inquinamenti, cancellazioni di biodiversità, spreco energetico e di risorse naturali, produzione di CO2 e, perfino, conflitti sociali. Quella bottiglia, così come la maggioranza dei manufatti umani, è portatrice di disordine nel mondo.







L'ordine e il disordine reali non corrispondono a ciò che è dettato dal senso comune !!

A questo punto si potrà pensare che l’invito implicito sia quello diretto a ritornare nelle caverne o nella jungla al fine di ripristinare l’ordine della natura. Ovviamente lo scopo di questa conversazione non è quella di proporre tali scelte assurde. Piuttosto è quella di far prendere atto della realtà in modo da poter fare quelle scelte razionali finora mai pensate. Infatti il cul de sac in cui la nostra specie si è andata a infilare deriva dalla semplice negazione della realtà e dall’illusione che ogni cosa potesse essere prodotta manipolando la natura senza pagare alcun prezzo. Dobbiamo sapere che ogni manipolazione della natura ha un prezzo di cui dovremmo tenere conto. Altrimenti siamo costretti a vivere prima gli inconvenienti, poi i drammi, infine le tragedie.





Sviluppi




Qui si descrive il modello del “movimento” della specie umana da un certo momento in poi della sua storia, precisamente da quando essa ha incominciato a disporre della capacità tecnologica che gli ha consentito di aggredire lo stock delle risorse primarie. Non è sufficiente partire dalla modernità. Tutto ha inizio con il neolitico.

Fase 1: una comunità umana, grazie ad armi e utensili, accede a flussi di risorse superiori a quelli ottenibili in modo “naturale”. Parimenti consente i primi accessi allo stock delle risorse primarie. Iniziano così le prime micro lacerazioni della tessitura della biocenosi;

Fase 2: l’aumento delle risorse disponibili e la disponibilità di armi consentono la prevalenza sui grandi predatori (che in molti casi vengono estinti) e comportano un aumento della popolazione (più di due figli per coppia);

Fase 3: l’aumento di popolazione implica un’ulteriore pressione sulle risorse le quali vengono prelevate in quantità eccessiva rispetto a quanto verrebbe prelevato in assenza di tecnologia. La sopraggiunta scarsità di risorse locali comporta un aumento del disordine ambientale e sociale;

Fase 4: Si tende a superare la scarsità con ulteriore assorbimento locale di flussi e nuova aggressione ad altro stock di risorse primarie per tentare di compensare gli effetti della fase 3 e soddisfare le esigenze dell’incremento della popolazione;

Fase 5: La fase precedente perdura fino a una presa d’atto: è impossibile insistere sullo sfruttamento ulteriore dello spazio colonizzato; a quel punto nasce la ricerca di una soluzione alternativa.

Ora non dovrebbe essere complicato comprendere in cosa consista la “
soluzione” sempreché condizioni particolari non conducano la comunità interessata in un vicolo cieco (esempio: Isola di Pasqua).







L’unica soluzione consiste nell’espansione territoriale e nell’occupazione di altri territori al fine di accedere alle loro risorse. La nuova disponibilità di energia e di risorse materiali consente la ripresa di un nuovo ciclo. La storia presenta un florilegio copiosissimo di casi che rientrano nel modello.

In tal modo il disordine ambientale, l’entropia prodotta dall’eccessiva intraprendenza del gruppo umano che si espande, viene in parte risolta nel "centro del sistema". Ricordiamo, tuttavia, che il processo di degrado è inevitabile. Ciò significa che l’espansione del gruppo umano dominante, mentre ricrea ordine nel proprio ambiente, genera inevitabilmente disordine in ambiti esterni. Non solo: il disordine creato all’esterno del sistema (la cosiddetta "periferia") è maggiore dell’ordine creato all’interno.

Complessivamente, la storia della specie umana si presenta come una corsa verso la distruzione della biocenosi, della comunità del vivente, oltreché di popoli che vengono sottomessi (quelli a tassi di sviluppo più lento). Occorre infine comprendere che, adottata questa prospettiva, non la si potrà più abbandonare prima che non si verifichi la condizione descritta nella prossima slide. Per due ragioni.

Ragione storica: l’espansione territoriale (o geografica) avviene con una popolazione in crescita e con tecnologie sempre più avanzate; entrambe impongono urgenti fabbisogni di risorse per neutralizzare tensioni sociali latenti che possono mettere il sistema in fibrillazione qualora non vengano soddisfatti i bisogni minimi.
Ragione strutturale: a partire dal XVIII sec. si afferma una organizzazione della società (modo di produzione capitalistico) che nell’incremento del profitto trova la ragione del suo esistere. Il movimento espansivo è conditio sine qua non per la sua sopravvivenza.







La saturazione degli spazi geografici si manifesta con la globalizzazione. Gli spazi si restringono e i beni che la natura ha concesso gratuitamente diventano scarsi per l'eccessivo prelievo. Non esistono più continenti “vergini” da vandalizzare. Allo sfruttamento storico della natura da parte delle potenze ex-coloniali si affianca quello di nuovi Paesi emergenti. La Russia post-sovietica, il Brasile, l’India e, soprattutto, la Cina sviluppano le loro economie e partecipano alla distruzione delle risorse economiche facendo concorrenza all’Occidente.

In generale, tutti i Paesi “in via di sviluppo”, o in modo diretto o tramite la torva invasività delle multinazionali si gettano in quella espansione malata che lo stesso pensiero dominante ha preteso che fosse il fondamento della ricchezza delle nazioni.

Il sistema universale che vive soltanto per il profitto e ha nel suo DNA la crescita all’infinito. Tuttavia deve fare i conti con la più ferrea delle leggi, la legge dell’entropia. Solo che il pensiero unico, l’ideologia della modernità, la disconosce relegandola nell’ambito delle scienze naturali. L’attacco sconsiderato ai flussi che priva del necessario le altre specie e dunque, indebolisce la vita “in generale”, e l’ancora più devastante aggressione allo stock sempre più scarso, implicano difficoltà progressive nel gioco universale: l’accumulazione del capitale.

All’impossibilità di rilanciare in grande il processo di accumulazione, il sistema risponde con lo sviluppo del capitale finanziario che si protende nel misero tentativo di produrre denaro con il denaro, senza passare dalla produzione. Ne deriva una moltiplicazione infinita di valore virtuale (senza corrispondenza con la realtà) che mai potrà trovare sbocchi nell’economia reale.







Gli ambientalisti giustamente ricordano che nessun sistema può crescere all’infinito, benché meno sulla Terra, dove ormai ogni angolo è sotto scacco di un produttivismo che aggredisce la cassaforte della natura. Accanto a tale affermazione dovrebbero aggiungerne altre due che in genere vengono sottaciute:

1. La crescita è distruttiva se supera le
capacità rigenerative del luogo in cui si manifesta. In questo caso il disordine entropico accelera e, occorre ribadire, è irreversibile; in altri termini il degrado che si formerà a causa dell’eccessiva intraprendenza umana non potrà più essere rimediato in assenza di risorse provenienti dall’esterno. Tale condizione è problematica in assenza di altri pianeti da saccheggiare e sui quali scaricare rifiuti.

2.
La produzione di merci entra in conflitto con la disponibilità di quei beni primari che sono fondamentali per la nuda vita e la cui mancanza o il cui deterioramento aumenta l’infelicità degli umani e accelera l’estinzione degli individui delle altre specie. La crescita della produzione, da un certo momento in poi, causa la decrescita delle risorse necessarie alla vita della comunità biotica (umano compreso). Questo processo è destinato ad avanzare fino a che il disordine prodotto dall’attività antropica non produce contemporaneamente:

a) crollo della struttura economica per mancanza di risorse disponibili;
b) minaccia alla sopravvivenza delle specie più complesse (mammiferi e vertebrati, tra cui anche Homo sapiens)
c) collasso sociale per problemi indotti sia da (a) che da (b).







Dovremmo tenere sempre presente un fatto banale che tentiamo di rimuovere perché apre problematiche su cui vogliamo inconsciamente sorvolare. Tutto ciò che ci cade tra le mani non viene da un pianeta esterno alla Terra. Tutto deriva dalla manipolazione della natura che si trova sul nostro Pianeta.

Alcuni ambientalisti hanno elaborato due indici, fortemente insufficienti per precisione esplicativa, ma sufficienti per mostrare tutta l’incongruenza dello sviluppo attuale della storia umana. Questi due indici sono riportati sulla slide e definiscono la capacità produttiva di un territorio e i consumi che vengono estratti dallo stesso.

Essi sono chiamati rispettivamente
biocapacità e impronta ecologica e si misurano in ettari globali (hag) (ettari corretti in base alla produttività posseduta).

È stato dimostrato in via sperimentale che un bambino di sei anni comprende che da una quantità data non è possibile estrarre una quantità più grande. Generalizzando, gli adulti dovrebbero comprendere che l’impronta ecologica non può superare la biocapacità, a meno che non regrediscano adottando quel pensiero magico che oggi sembra possedere molti. Andiamo a vedere cosa accade in alcuni Paesi presi a esempio.







Osserviamo con molta attenzione questi dati. Il primo va letto in modo diverso da quelli che seguono. Vediamo perché.

Il valore “mondo”, a prescindere dalle differenze tra le classi e tra poveri e ricchi, dimostra che il Pianeta vede una specie umana che consuma più di quanto il Pianeta stesso possa offrire. La differenza (2,8-1,7 = 1,1 hag p.c.) è in relazione con l’
attacco allo stock delle risorse primarie che, si sottolinea, costituisce il capitale della natura. Per via del consumo di stock, in un ciclo successivo si ridurranno i flussi disponibili (alimentari e non).

I tre Paesi Occidentali presi ad esempio mostrano notevoli deficit (l’Italia, ad esempio, consuma tutte le sue risorse entro i primi tre mesi dell’anno). Però la natura di questi dati è più difficile da interpretare. Infatti, lo scarto negativo andrebbe scomposto in due componenti di cui – in assenza di studi adeguati – conosciamo soltanto la somma:

1. la prima come attacco allo stock delle risorse primarie del
proprio Paese,
2. la seconda come assorbimento di flussi e di stock
appartenenti ad altri Paesi.

Nel primo caso si sottraggono risorse alle “proprie” successive generazioni; nel secondo caso, agli altri popoli (attuali e futuri). L’ultimo caso dimostra come certi popoli abbiano consumi al di sotto delle risorse offerte dal proprio territorio. La differenza, frequentemente, è canalizzata verso i Paesi ricchi.







La slide illustra semplicemente il deficit mondiale attuale connesso alle risorse consumate dalla nostra specie. Esso supera di circa il 40% il potenziale della Terra (dati del WWF del 2018). Grosso modo, a metà agosto abbiamo esaurito l’offerta del Pianeta.

Occorre insistere sul fatto che i dati aggregati
non tengono conto delle diverse responsabilità tra le classi sociali e tra i popoli. In questo contesto non è possibile approfondire questa fondamentale questione. Tuttavia deve essere chiaro che persino politiche ridistributive a somma zero (anche se radicalmente egualitarie) non sono in grado si risolvere il problema principale: il sacco del mondo compiuto dalla specie umana. Ciò significa che l’approccio politico tradizionale della sinistra classica non è più in grado di funzionare. A maggior ragione non possono funzionare le politiche delle sinistre riformiste o delle destre popolari, liberali, conservatrici o populiste.

Importante

La riflessione fin qui fatta suggerisce un assunto sbagliato. E cioè che basterebbe ricondurre a equivalenza biocapacità e impronta ecologica (equilibrio al 31 dicembre) per liberarsi del problema. Non è così. La situazione sarebbe grave anche in quel caso poiché l’impronta ecologica dovrebbe essere una frazione della biocapacità. La semplificazione è imposta dal carattere propedeutico di questa presentazione.







Ci stiamo avvicinando alla questione cruciale: perché partiti e governi – il personale politico, insomma – trascurano questioni talmente reali da angosciare e porre in allarme scienziati, popolazioni, movimenti?

Riprendiamo la scheda che abbiamo già incontrato. Il terzo gruppo, quello decisamente più significativo. È costituita da individui, che, pur consapevoli del problema, sono plagiati dall’ideologia che confida nella capacità umana di districarsi da ogni condizione critica.

Pertanto, privi di qualsiasi competenza in merito, si affidano agli apprendisti stregoni che occupano le università, l'industria, i centri studi, i laboratori tecnologici e che promettono iniziative risolutive. In altri termini, ripongono più che le speranze, le certezze nella scienza e nei suoi risvolti tecnologici.

Quest’ultimo tipo è quello su cui merita soffermarsi. Infatti è quello in decisa crescita in quanto sia i distratti sia i negazionisti saranno a breve costretti a prendere atto della realtà e ad abbracciare quello che oggi sembra essere (senza esserlo) l’unica via di uscita: l’impiego di soluzioni tecnologiche per contrastare l’accelerazione dei fenomeni planetari di natura antropica.

La questione che assume un’importanza di primo piano è questa: perché la “risorsa tecnologia” è un rimedio peggiore del male?







È nota a molti la relazione       I = f (n, a, t)        per mezzo della quale si ritiene che l’impatto dell’attività umana dipenda da tre parametri: popolazione, consumi, tecnologia. In realtà le cose sono molto più complesse, ma è possibile prendere la funzione come elemento preliminare per evidenziare l’errore primario: l’assurdità dell’idea secondo la quale la tecnologia dovrebbe svolgere una funzione di correzione dell’impatto prodotto dai consumi e dalla popolazione. Ciò può essere dimostrato 1) in modo intuitivo, 2) in modo razionale, 3) per mezzo di serie storiche.

1. Intuitivamente si comprende come lo sviluppo tecnologico comporti un maggiore impatto sulla natura a parità di servizio fornito. L’impatto è maggiore se Tizio va a lavorare a piedi, in bicicletta o in automobile? Le infrastrutture occorrenti per un ampio parco auto sono maggiori o minori di quelle occorrenti per le biciclette? È più impattante il treno o l’aereo? Lo spazzolino manuale per lavarsi i denti o quello elettrico?

2.
Sul piano razionale vale la seconda legge della termodinamica: lo sviluppo tecnologico comporta un aumento di complessità e quindi un aumento dell’entropia (disordine) che, come già osservato, è irreversibile.

3. Infine, le serie storiche mostrano che insieme allo sviluppo tecnologico si è sempre manifestato un impatto crescente sulla biocapacità di un territorio.

Confidare nello sviluppo tecnologico per diminuire l’impatto umano nella biosfera significa affidarsi a un pensiero magico e non razionale. Ne consegue che mantenere questa folle credenza non farà altro che peggiorare ulteriormente la prospettiva. Alcune assurdità che si ritiene possano ridurre l’impatto sono riportate nella seguente slide.







In Europa si fa gran parlare di green new deal. Coloro che stanno distruggendo le prospettive di noi tutti si stanno impegnando, attraverso un’operazione di greenwashing (essi sciacquano con la parola “verde” politiche sciagurate), per portare a compimento la loro opera. Questi alcuni dei principali concetti di riferimento:

1. L’economia circolare viene definita come un’economia capace di autorigenerarsi recuperando gli scarti industriali e assegnando alla natura il compito di attivare i suoi cicli. In tal modo si minimizzerebbero scarti e perdite. Si tratta di un’idea velleitaria; per quanti sforzi si facciano, al di là di casi costruiti ad hoc, scarti e perdite saranno sempre insostenibili. Ciò non significa che non si debba adottare il riciclo quando sia possibile. Significa piuttosto che è una misura tampone da associare a misure ben più incisive.

2. L’economia immateriale è una delle bufale più sorprendenti uscite dalla mente umana. Se esiste il paradiso, lì gli angeli possono realizzare un’economia immateriale. Sulla Terra tutto ha un costo in termini di risorse materiali ed energia, anche una misera e-mail.

3. Un’altra parola magica cui si affida grande speranza è innovazione. Innovazione significa aumento della complessità e conseguentemente, aumento dell’accelerazione del degrado entropico. L’eventuale riduzione locale del disordine comporta un aumento in un altrove scientemente ignorato.

4. La geoingegneria sogna di sostituire i processi climatici planetari con tecniche artificiali sull’ambiente fisico. Una follia che si commenta da sé.

5. Riconversione ecologica e sviluppo sostenibile sono espressioni impiegate anche da onesti critici dell’attuale sistema. Tuttavia sono termini generici ai quali nessuno riesce ad associare alcun serio contenuto.

L’insistenza sui concetti illustrati tradisce l’
indisponibilità a percorrere l’unica strada che dovrebbe essere percorsa: una sostenuta e controllata decrescita, almeno nei Paesi che hanno contribuito di più a mettere in crisi il Pianeta. Purtroppo si parla di decrescita soltanto presso alcuni movimenti che rifiutano due aspetti sui quali non è possibile soffermarsi: 1) essa dovrebbe essere gestita in un ambito socialista e pianificato; 2) potrebbe avere tutte le caratteristiche tranne quella di essere “felice” a causa degli enormi sacrifici imposti dalle circostanze, e della "guerra di resistenza" delle classi privilegiate.







Una conclusione provvisoria è questa: scienze naturali e scienza economica, pur essendo nate pressoché nello stesso periodo, hanno preso strade che si sono divaricate.

Le prime hanno percorso la strada del realismo e del materialismo, l’altra si è inerpicata su un mondo immaginario a causa dell’illusione prodotta dall’iniziale (apparente) abbondanza di risorse. La conseguenza diretta è che la scienza economica, una volta entrata in un ambito di scarsità non riesce più a raccapezzarsi in un mondo che non da le risposte che lei si aspetta.

La teoria economica così come si è storicamente formata, non riesce ad avere un rapporto oggettivo con il mondo reale!

A sua volta, la sfera della politica, che negli ultimi due secoli si è conformata ai teoremi della scienza economica, ne subisce le contraddizioni, come illustrato nella scheda successiva.





Le radici profonde del pensiero economico, si sono trasferite pari pari nella visione ideologica dello Stato, il quale, a sua volta si trova sotto doppio ricatto. Lo Stato ottiene le risorse per il suo funzionamento sia dal sistema fiscale (che grava su lavoratori e imprese) sia dall’accensione di prestiti. Ovviamente i fattori di input derivano dal centro motore del sistema: la sfera economica e finanziaria. A sua volta, lo Stato provvede a sostenere il welfare e a predisporre le condizioni strutturali per lo sviluppo economico.

Cosa accade quando il cuore del sistema, la sfera economica non è in grado di rispettare il presupposto irrinunciabile della crescita? Lo Stato riceve meno introiti. Perciò, i trasferimenti necessari per il welfare e quelli per il sostegno al sistema delle imprese diventano sempre più miseri e concorrenti. Così come diventano concorrenti i canali del consenso.

O guadagna il risentimento dei produttori sottraendo risorse al sistema economico o si guadagna quello dei cittadini che si sentono traditi da un welfare sempre più scarno. In clima di scarsità, lo Stato non riesce a soddisfare entrambe le richieste e, barcamenandosi tra le due esigenze, finisce per scontentare gli uni e gli altri.

Se quanto precede ha senso, si comprende come tutte le ricette liberali di destra e di “sinistra” siano destinate a totale fallimento perché prima ancora che le soluzioni, sono i problemi che vanno portati fuori dalla cornice nella quale vengono imprigionati: nell’equilibrio infranto tra attività umana e natura.

Pensiamo ai lavori parlamentari, al chiacchiericcio di mille talk-shaw, agli articoli dei media di tutto il mondo: tutta questa spazzatura si riduce a un discorso banale e illusorio: la ricerca dell'equilibrio espansivo tra 1) profitti, 2) consumi privati e 3) welfare nel tentativo di mantenere vivo un sistema che, pur funzionando per un certo tempo, aveva al suo interno i germi della propria autodistruzione.

Non è compito di questa presentazione prefigurare possibili prospettive, ma è possibile accennare alla difficoltà principale cui andrà incontro il soggetto politico che tenterà di deviare la storia dalla catastrofe finale: egli dovrà superare la sorprendente alleanza tra élite, borghesia e ceti popolari. Tutti uniti nel tentativo di mantenere vivo un sistema moribondo e senza prospettive. Quando il vecchio starà definitivamente per morire, il nuovo farà molta più fatica a nascere - se nascerà - che in altri momenti del passato.






Epilogo




Jem Bendell, un ricercatore britannico che ha attivato un gruppo di ricerca e un sito web (jembendell.com), ritiene – dopo aver preso in esame una letteratura imponente – che ormai sia troppo tardi per tentare di invertire la rotta poiché i fenomeni che sono sotto i nostri occhi non hanno andamento lineare, e quindi sono destinati a subire un’accelerazione che non lascia scampo.

Accanto agli aspetti legati al cambiamento del clima e delle conseguenze sociali correlate, Bendell – nell’articolo
Deep Adaptation: A Map for Navigating ClimateTragedy insiste intorno alla necessità di prepararsi alle prossime condizioni sia dal punto di vista psicologico che da quello organizzativo. Infatti egli ritiene che si stiano già manifestando i segni di avvio di un processo che, nella forma meno grave, assume i caratteri del collasso sociale.Purtroppo il collasso sociale, ritenuto inevitabile a breve, potrebbe accompagnarsi a una probabile catastrofe ambientale e a una possibile estinzione della specie umana (estinzione che si accompagnerebbe a una riduzione drastica della biodiversità).

La lettura dell’articolo non aiuta a comprendere in modo chiaro la differenza tra collasso sociale e catastrofe ambientale. Probabilmente l’autore intende con “collasso sociale” un doloroso adattamento della civiltà umana ai cambiamenti climatici ancora gestibile con pratiche di resilienza, mentre, con l’espressione “catastrofe ambientale”, un’impossibilità di realizzare tali pratiche e lo scivolamento progressivo nel ramo discendente della parabola della nostra specie
.







A prescindere dalle oscure e apocalittiche prospettive di Bendell, possiamo già oggi vedere come la nostra specie si sia già inoltrata nell’epoca del collasso sociale. L’avversione registrabile pressoché ovunque verso le istituzioni politiche segnala la mancata corrispondenza tra atti di governo e aspettative dei governati, fenomeno che si amplifica con l’evidente stato confusionale della governance mondiale. Difficile pensare che il personale politico sia antropologicamente degradato rispetto a quello del secondo dopoguerra. È più facile pensare che lo tsunami di una sopraggiunta complessità renda impossibile risolvere quanto soltanto mezzo secolo fa si presentava ancora intelligibile.

Così
aumentano i conflitti locali, anche se quelli globali per sottrarre le scarse risorse altrui sono sempre incombenti.

Ma, anche se si riuscisse a evitare conflitti tra grandi potenze, le crisi umanitarie, le emigrazioni di massa appartengono alla logica di crisi economiche endemiche destinate a sviluppare una sofferenza universale alla quale non potranno sottrarsi nemmeno i popoli che finora hanno potuto contare su un buon livello di vita.

L’albero che porta questi frutti velenosi si chiama in un solo modo:
antropocene! Ciò che si prefigura in tempi relativamente brevi è terrificante. Le paure, le ansie, il timore della perdita del futuro per i figli e i nipoti (e non le prossime lontanissime generazioni) altro non sono che la percezione, ancora densa di incertezze, di una frattura difficilissima da ricomporre tra specie umana e natura.







Una delle ultime dichiarazioni del grande antropologo Claude Lévi-Strauss è il modo migliore per concludere questa presentazione. L’intervista è stata concessa nel 2004. Forse dovremmo tenere presenti ammonimenti come questo per trovare la forza di tentare di invertire il corso autodistruttivo della storia umana. Anche se ormai, forse, è troppo tardi.